mercoledì 19 marzo 2014

Studi di settore e commercialisti, una sentenza spiegata dall'Avvocato Nicola Ricciardi

Sentenza su studi di settore commento Avvocato Ricciardi
In base alle conclusioni della sentenza 384/29/14 della Ctr Lombardia l'esperto di diritto tributario Avvocato Nicola Ricciardi riassume la situazione fiscale di un commercialista per il quale la presunzione dei maggiori compensi professionali basata sull’applicazione degli studi di settore non dovrebbe avere valore poiché questi non sono significativi del tempo dedicato alle curatele perché riguardano attività svolte in più anni.

Il commercialista, infatti, ha svolto in prevalenza l'attività di curatore fallimentare e solo occasionalmente quella di ragioniere.

La vicenda processuale riguarda un professionista che nel 2005 ha dichiarato circa 45mila euro di compensi, di cui 7mila per l’acconto della curatela di un primo fallimento e altri 6mila per la consulenza tecnica di una seconda procedura concorsuale. In quell’anno il contribuente ha dedicato l’80% del suo tempo all’attività di curatore e il restante 20% a quella più remunerativa di ragioniere. Pur avendo percentualmente suddiviso i compensi tra le due attività nella compilazione del quadro D degli studi di settore, l’amministrazione finanziaria gli ha accertato maggiori compensi per oltre 22mila euro.

Il diretto interessato ha presentato ricorso in primo grado. A suo avviso, il Fisco non ha considerato come i compensi delle curatele, salvo sporadici e modesti acconti, vengono solitamente liquidati al momento della chiusura del fallimento, la quale avviene a distanza anche di molti anni dall’apertura della procedura, pertanto non rappresentano il tempo dedicato a tale attività. Poi, in base al principio di cassa, il professionista è tenuto a dichiararli nell’anno in cui sono effettivamente percepiti e quindi in periodi d’imposta diversi da quelli per cui si è impegnato. Infine, sempre a detta della difesa, l’ufficio ha travisato i dati indicati in Unico, perché le istruzioni non richiedono l’indicazione percentuale delle ore di lavoro effettivamente svolte per le due attività ma solo l’incidenza percentuale dei compensi percepiti sul loro totale. Tuttavia la Ctp ha dato ragione all’amministrazione finanziaria perché la documentazione prodotta dal contribuente non era idonea a vincere la presunzione.

Così il professionista ha presentato appello che ha portato alla totale riforma della sentenza di primo grado. La Ctr ha rigettato la richiesta d’inammissibilità dell’appello proposto dall’uomo per assenza di motivi specifici, perché a fronte di una motivazione insufficiente della sentenza l’appello non può che fondarsi sulle ragioni esposte in Ctp.

Secondo la Commissione regionale, il Fisco sbaglia a ritenere, sulla base delle due fatture emesse nel 2005, che l’attività del commercialista fosse prevalente e pari al 72%: percentuale ottenuta rapportando l’ammontare delle due fatture (acconto e perizia) al reddito complessivo. Di conseguenza non era possibile presumere un reddito da commercialista maggiore di quello dichiarato. Infatti «dalla documentazione prodotta dal contribuente, in particolare dai decreti di liquidazione dei compensi del tribunale fallimentare - si legge in sentenza - si evince chiaramente che il relativo reddito è riferito ad attività svolte negli anni, a volte molti, precedenti».

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